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LO SPORT? LA MIA PALESTRA DI VITA


da The Heart Of Connection
- (2 aprile 2019)

Sono Florinda Trombetta. Attualmente ho 37 anni, sono di Milano e lavoro in una società di formazione. Ho sempre praticato sport fin da piccola ed è un’attività che ho portato avanti in parallelo alla mia vita lavorativa. All’età di 30 anni, in particolare, mi sono imbattuta in uno sport di cui mi sono follemente innamorata, che è il canottaggio e mi ha permesso di raggiungere un traguardo raggiungibile da pochi. Seguendo

un grande percorso sportivo sono arrivata alla realizzazione di quello che è stato forse l’obiettivo più grande che abbia finora raggiunto nella vita, nonostante sia stato qualcosa che non avevo minimamente pensato di realizzare da ragazza. Nel 2012 ho partecipato alle paralimpiadi di Londra.

Florinda, mi parli di Paralimpiadi, come mai non Olimpiadi?

Perché sono un’atleta non vedente a causa di una patologia che si chiama retinite pigmentosa. Sono nata già con questa malattia ma poi è degenerata nel tempo e negli anni portandomi alla cecità. Ancora adesso ho la percezione delle luci e delle ombre che però si sta affievolendo.

Quindi tu sei nata non vedente o ipovedente?

Sono nata ipovedente ma con un buon residuo visivo. Tant’è che fino ai 6 anni non si era a conoscenza del fatto che avessi questa malattia. Si sono accorti negli anni a cavallo tra la scuola materna ed elementare che c’erano delle difficoltà che in una bambina normalmente non si riscontrano. Ho fatto, quindi, tutta una serie di iter di visite: all’inizio non era stata identificata come una malattia alla vista, perché ero comunque completamente autonoma avendo sempre fatto tutte le attività che fanno normalmente i bambini (correre, andare in bicicletta, ecc..), ma si era pensato più ad un disturbo psicologico. Mi hanno mandato inizialmente da uno specialista psichiatra, pensando che fosse un problema legato al bisogno di attenzioni. Poi però con indagini più approfondite si sono resi conto che non c’entrava nulla l’aspetto neurologico ma era più un problema a livello oculistico. C’è da dire che sono passati anni prima che si giungesse a questa conclusione, anche perché io vedevo abbastanza bene. È stato poi nel tempo che, alle scuole medie, ho avuto un declino, un peggioramento della malattia e un ulteriore peggioramento verso i 19-20 anni molto grosso: è stata questa l’età in cui ho iniziato ad utilizzare il bastone bianco e a dover fare i conti con la malattia.

Qual è la differenza tra cecità e ipovisione?

Le persone ipovedenti hanno un residuo visivo. Si può parlare di ipovedenti gravi, ipovedenti medi e ipovedenti lievi. Mentre per quando riguarda i ciechi si fa distinzione tra ciechi assoluti e ciechi parziali.

Si pensa infatti che i ciechi non vedano assolutamente nulla, che abbiano il buio davanti a sé. In realtà non è esattamente così. È considerato cieco anche colui che ha la percezione delle luci e delle ombre. Anche per gli ipovedenti ci sono diversi criteri di valutazione in base al visus e al campo visivo, anche a seconda del tipo di patologia o lesione di cui si parla. Esiste anche una legge che definisce quando si è cieco o ipovedente e con che gravità: una novità che introduce questa legge è proprio quella di valutarne la gravità tenendo conto anche del campo visivo, oltre che al visus.

Spesso molte persone si chiedono: i ciechi sognano?

Sì e dipende da molte cose.

Come ricordiamo il sogno dipende se abbiamo perso la vista da tanto o poco tempo, se non abbiamo mai visto… Io mi rendo conto che ultimamente sogno sempre meno con i colori perché ormai è da un po’ che faccio fatica a riprodurli e rappresentarli nei sogni. Me li ricordo abbastanza ma non li riproduco più nella vita quotidiana quindi il mio cervello fa più fatica a rappresentarli. Il mio sogno in questo momento è la mia rappresentazione quotidiana di quello che mi succede. Sono sogni di tipo “esperienziale”. Sento le sensazioni, le voci, riproduco quelle emozioni che ho vissuto.

Nelle persone non vedenti è vero che gli altri sensi sono più sviluppati?

Si beh, iniziamo con il dire che non siamo supereroi con dei poteri sovrannaturali: diciamo che facciamo più attenzione a quelli che sono gli stimoli che arrivano agli altri sensi. Se sono per strada e cerco un bar, magari mi faccio guidare dal rumore delle tazzine, dal profumo del caffè… Ma non è che sento di più oppure ho un udito o un olfatto più sviluppato. Semplicemente i miei sensi sono più allenati a lavorare.

Hai detto all’inizio che hai fatto tanti sport nella tua vita, in particolare uno che ti ha portato ad un grande traguardo e successo personale. Avrei a tal proposito una domanda per te. Che cos’è per te lo sport?

Mi viene in mente una palestra di vita, anche se è una cosa abbastanza detta e ridetta come frase, però effettivamente io la sento molto vera. Così come nella vita anche nello sport devi imparare ad andare sempre oltre il tuo limite.

In entrambi i casi, secondo, me è quello che ci fa sentire vivi: sentirsi attivi e protagonisti della nostra esistenza è il fatto di essere sempre alla ricerca di un miglioramento e quindi di alzare sempre un po’ l’asticella e di andare sempre un pochino oltre quello che è il nostro limite.

Per me sport e vita sono due binari che vanno in parallelo e che vanno nella stessa direzione.

Assolutamente d’accordo, mi viene in mente una frase del tipo “Verso l’infinito e oltre!”. Sto pensando a te come Florinda sportiva. Chi è esattamente?

Alla fine, non è molto diversa dalla Florinda che vive nella sua quotidianità. Segue le sensazioni, i sentimenti e le emozioni e si fa guidare molto da quello che sente, a volte imbattendosi in strade anche molto difficili. Però se c’è qualcosa che mi piace fare lo faccio. Dicono che sono determinata; quando ho un obiettivo, cerco e voglio portarlo a termine. Una volta raggiunto questo obiettivo ne cerco subito un altro. Sono alla costante ricerca di stimoli.

Idea perfettamente chiara. Visto che hai detto che sei una persona determinata e che quando hai un obiettivo lo devi raggiungere per forza, volevo sapere com’è Florinda in un contesto in cui ci sono, oltre ad obiettivi individuali, anche obiettivi di squadra.

Che domande difficili! (ride).

Lo sport che mi ha portato alle paralimpiadi è il canottaggio di squadra. In questo contesto cinque persone si trovano a cooperare in uno spazio molto stretto. Serve sintonia, feeling molto forte e deve scattare un’armonia.

Anche qui guardo molto me stessa. Anche all’interno di una squadra, ho sempre cercato di dare io in primis tutto il meglio che potevo cercando di collaborare con gli altri per un fine comune. A volte sentendomi anch’io un po’ in difetto, nel senso che non sento mai di aver raggiunto il massimo.

Durante gli allenamenti stavamo insieme per molto tempo – erano 4 ore di allenamento al giorno – in uno spazio molto stretto: è ovvio che scattassero momenti di tensione, per stanchezza ecc. E ho sempre cercato di ragionare da squadra, cercando di evitare lo scontro, di mettere un po’ a tacere i momenti di tensione. Ho sempre cercato la perfezione della performance concentrandomi su di me.

Sono stata scelta come capo voga che è la figura che detta un po’ il ritmo e andamento della gara. È una scelta che hanno fatto i tecnici anche per una serie di caratteristiche che hanno trovato in me.

In che modo lo sport influenza la tua vita quotidiana?

Diciamo che ogni tanto ci penso e quando mi sento un po’ stressata nella vita quotidiana e dal lavoro, penso alle attività di alto stress a livello sportivo e all’alto stress che mi provocava anche il partecipare ad una gara, e di conseguenza è come se mi rilassassi: se ce l’ho fatta a superare quei momenti, ce la posso fare a superare qualsiasi prova mi si presenti.

La pratica sportiva mi ha dato forza nel superare qualsiasi difficoltà nella vita quotidiana.

Ti ho fatto questa domanda perché quando si parla di psicologia dello sport non si parla solo di allenamento mentale, ma anche di incremento e di valorizzazione del benessere dell’atleta. C’era un’indagine dell’Istat che conferma come chi porta una disabilità, visiva ma non soltanto, presenta un incremento (percepito ndr) della qualità della vita e di come lo sport incida significativamente sul proprio benessere.

E’ vero, è vero.

E’ vero, io vedo nel contesto invece delle disabilità fisiche che lo sport ha una grande qualità a livello riabilitativo e sociale, nel senso che spesso, anche con disabilità abbastanza impegnative, il contesto sportivo ti aiuta ad entrare in un situazione sociale in cui ci sono altre persone con caratteristiche simili e insieme si collabora per il raggiungimento di un obiettivo: la vittoria di una partita piuttosto che l’allenamento insieme…

Ti racconto questa cosa: mi sono rivolta all’unione ciechi quando avevo 17-18 anni, perché in quel momento stavo avendo un calo forte della vista e avevo bisogno di un supporto anche per affrontare la vita. Ero in prossimità degli esami di maturità, fino a quel momento ho sempre fatto tutto da sola ma sopraggiunto il calo degenerativo della malattia ho iniziato ad aver bisogno di un’insegnante di sostegno. Mi hanno consigliato di rivolgermi all’unione ciechi per aver questo supporto. Ovviamente ero fin da subito un po’ restìa, non ci volevo andare, quello dei ciechi era un ghetto, fatto di persone vecchie, insomma un contesto per me molto negativo.

Invece la prima volta che sono andata all’unione, ho incontrato un signore molto disponibile che mi ha introdotto al gruppo sportivo di ciechi. Questa è stata un po’ la chiave di svolta. Ho preso ossigeno, ho iniziato a sentirmi più a mio agio nell’ambiente ed è stato il primo aggancio che ho avuto nel mondo della disabilità nello sport. Da lì ho conosciuto tutta una serie di persone che stavano vivendo o avevano già vissuto la mia stessa situazione. Ho tratto tantissimo da questa esperienza. Ho iniziato a sperimentare in contesti diversi: ho iniziato a sciare per la prima volta e a provare tanti sport conoscendo molta gente. Ho iniziato a cambiare tutti i pregiudizi che avevo: ho fatto più attività sportiva di quella che facevo prima e ho iniziato a sperimentarmi anche in ambienti diversi.

Ho imparato a sciare grazie al gruppo di Milano perché prima non avevo mai messo gli sci in vita mia e quando ho visto che c’era questa possibilità ho detto “Ma sì dai, proviamoci!”.

Tra l’altro lo sport non ha solo una funzionalità riabilitativa ma anche una funzione di integrazione anche con persone normodotate. Questo per evidenziare il valore educativo che lo sport può dare.

Non perché sia il mio sport, ma il canottaggio secondo me è la regina dell’integrazione perché nel canottaggio paralimpico, sulla stessa barca, non ci sono solo disabili sensoriali, ma ci sono disabili fisici e normodotati.

Il timoniere potrebbe essere una persona con disabilità fisica ma potrebbe anche essere normodotata, nel nostro caso era sempre un normodotato.E poi siamo due uomini e due donne, per cui c’è la massima integrazione.

Tu hai partecipato alla Paralimpiade di Londra 2012. Puoi raccontarci la tua esperienza?

Londra è stata forse la prima paralimpiade dove veramente le paralimpiadi sono state valorizzate, forse erano addirittura ad un livello più alto rispetto alle olimpiadi. Era bellissimo, sentivi che c’era la città che tifava per te come atleta, non come disabile. Vivevi questa sensazione di essere un’atleta. Camminando per la città con la maglia dell’Italia, mi sono sentita proprio la persona più potente e più realizzata di questo mondo.

Sentivo di aver raggiunto il massimo a cui potevo aspirare.

Ci sono tante cose che mi passano davanti quando penso a Londra, a partire dal tifo quando entravamo nel campo di regata, sentire le persone sugli spalti che erano lì a tifare. Un pubblico, come qualsiasi altro sport, che ti dava una carica pazzesca. E poi entriamo nella parte più adrenalinica che è quella delle gare, dove entri in un’altra dimensione: in quel momento era come se mi fossi staccata dal mio corpo – il corpo va e la mente vola – e una volta sono entrata in uno stato di trance agonistica, soprattutto negli ultimi 300 metri quando eravamo alla fine della gara.

Ho provato questa sensazione di non sentire più la fatica, probabilmente ero tanto in uno stato di crisi che non sentivo più niente.

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